LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE 
 
    Ha pronunciato la seguente  ordinanza  sul  ricorso  proposto  da
Belfiore Giuseppe, nato a Gioiosa Jonica il 7 ottobre  1956  (avverso
la sentenza della Corte d'Appello di Torino in data 3 febbraio 2010; 
    visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; 
    udita la relazione svolta dal Consigliere Carlo Zaza; 
    udito il Procuratore  Generale  in  persona  del  dott.  Giovanni
D'Angelo, che ha concluso per il rigetto del ricorso; 
    udito il difensore  dell'imputato  Avv.  Marco  Ferrero,  che  ha
concluso per l'accoglimento del ricorso; 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    Con la sentenza impugnata, in parziale riforma della sentenza del
Tribunale di Torino in  data  11  dicembre  2002,  Belfiore  Giuseppe
veniva condannato alla pena di anni uno e mesi quattro di  reclusione
per il reato dl bancarotta fraudolenta  patrimoniale  commesso  quale
amministratore  unico  della  s.r.l.  API,  dichiarata  fallita   con
sentenza del Tribunale di Torino in data 17 giugno 1996,  distraendo,
distruggendo o comunque  dissipando  macchine  per  ufficio,  mobili,
arredi per ufficio e crediti dell'importo di lire 10.000.000. 
    Il ricorrente lamenta: 
      1. violazione degli articoli 157 cod. pen. e 10 legge  251/2005
in ordine alla mancata  declaratoria  di  estinzione  del  reato  per
prescrizione; 
      2. violazione degli articoli 192, 521, 533  e  604  cod.  proc.
pen.  e   manifesta   illogicita'   della   motivazione   in   ordine
all'affermazione di responsabilita' dell'imputato; 
      3. mancata assunzione di una prova  decisiva  costituita  dalla
deposizione del teste Tempo Giovanni. 
 
                         Ritenuto in diritto 
 
    1. Con il  primo  motivo  il  ricorrente,  premesso  che  con  la
sentenza  impugnata  venivano  escluse  l'aggravante  e  la  recidiva
contestate e che il reato e'  di  conseguenza  prescritto  ove  venga
applicata  la  sopravvenuta   normativa   in   materia   di   termini
prescrizionali di cui alla legge n. 251 del 2005,  e  richiamati  gli
orientamenti giurisprudenziali succedutisi in tema di  determinazione
della  pendenza  del  procedimento  in  appello  ai  fini  di   detta
applicazione della nuova normativa, sostiene  essere  preferibile  la
tesi, convalidata  da  parte  della  giurisprudenza  nel  caso  della
pronuncia in primo grado  di  una  sentenza  assolutoria  e  ritenuta
valida anche per il caso in  esame,  per  la  quale  la  pendenza  in
secondo grado si realizza con l'emissione del decreto di citazione  a
giudizio in appello, in quanto  maggiormente  garantiste  e  tale  da
legare la pendenza ad un momento processuale certo, comune a tutte le
situazioni  senza  discriminazione  fra  casi  di   condanna   e   di
assoluzione in primo grado; ed a  questo  proposito  rileva  come  la
diversa indicazione giurisprudenziale della sentenza di  primo  grado
quale determinante la pendenza in appello, pur  fatta  propria  dalle
Sezioni Unite di questa Corte, contrasta  con  l'art.  117  Cost.  in
quanto non conforme all'art. 6 comma secondo del Trattato sull'Unione
Europea,  laddove  Io  stesso  impone   il   rispetto   dei   diritti
fondamentali garantiti dalla Convenzione europea per la  salvaguardia
del diritti dell'uomo, e con le decisioni della  Corte  di  Giustizia
delle  Comunita'   Europee   che   includono   fra   detti   principi
l'applicazione della pena piu' favorevole in  tema  di  prescrizione,
come riconosciuto con l'ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite in
data 12  novembre  2009  che  si  allega  al  ricorso,  in  subordine
sollevandosi eccezione di illegittimita' costituzionale dell'art.  10
legge 251/2005 per contrasto con il citato art. 117. 
    2.  Come  e'  noto,  l'art.  10  legge  n.  251  del  2005  detta
disposizioni transitorie sull'applicazione dei termini prescrizionali
secondo i diversi criteri stabiliti dalla  stessa  legge  a  modifica
della previsione dell'art. 157 cod. pen. In particolare, per cio' che
qui interessa, il comma 3 dell'articolo  citato,  nella  formulazione
conseguente   alla   declaratoria    di    parziale    illegittimita'
costituzionale  di  cui  a  Corte  Cost.,  sent.  n.  393  del  2006,
stabilisce che i termini computati secondo la normativa sopravvenuta,
ove piu' brevi di quelli individuati  alla  legislazione  precedente,
vengano applicati ai procedimenti in corso alla data  di  entrata  in
vigore della legge ad esclusione di quelli gia' pendenti in grado  di
appello o dinanzi alla Corte di Cassazione. 
    Posto che la disciplina dei termini  di  prescrizione  ha  natura
sostanziale (Sez. 5, n. 12766 del 16 febbraio 2010,  imp.  Meggiorin,
Rv. 246877) ed e' pertanto  soggetta  all'applicazione  del  principi
generali di cui all'art. 2 cod. pen. in tema di retroattivita'  della
legge piu' favorevole all'imputato, la norma in  oggetto  pone  nella
specie   un   limite   a   tale   generale    effetto    retroattivo,
identificandolo, nello sviluppo cronologico del  procedimento,  nella
pendenza del procedimento in grado di appello; per cui, laddove detta
pendenza abbia avuto inizio prima dell'entrata in vigore della  legge
introduttiva  delle  nuove  modalita'  di  calcolo  dei  termini   di
prescrizione,  queste  ultime  non  potranno  essere  applicate   nel
procedimento, che continuera' ad essere regolato a questi fini  dalla
normativa previgente. 
    Come  rammentato  dallo  stesso  ricorrente,  questa   Corte   ha
recentemente affermato che il dato  processuale  della  pendenza  del
procedimento in grado d'appello del procedimento e' determinato dalla
pronuncia della sentenza di condanna di primo grado (Sez. U, n. 47008
del 29 ottobre 2009, imp. D'Amato,  Rv.  244810).  Questa  posizione,
ribadita anche da decisioni  successive  (Sez.  6,  n.  8983  del  16
dicembre 2009, imp. Torrisi, Rv. 246406), e' coerente con la  attuale
formulazione dell'art. 10, comma 3, legge n. 251 del  2005,  che  non
radica il discrimine fra le  aree  di  operativita'  delle  normative
succedutesi in un atto processuale determinato, ma Io  indica  Invece
sostanzialmente nell'inizio di una fase  processuale.  Ragionevole  e
consequenziale e' a questo punto un'interpretazione  che  colloca  il
limite nell'atto formalmente  conclusivo  della  fase  immediatamente
precedente, ossia  quella  di  primo  grado;  atto  che  deve  essere
individuato nella pronuncia della sentenza di condanna che  definisce
quella  fase,   ponendosi   per   altro   verso   come   affermazione
particolarmente qualificata, in quanto susseguente alla verifica  del
contraddittorio    dibattimentale,    della     volonta'     punitiva
dell'ordinamento, come tale indicata in  posizione  preminente  quale
atto interruttivo della prescrizione dall'art.  160,  comma  1,  cod.
pen.. 
    Contrariamente a  quanto  sostenuto  nel  ricorso,  il  principio
appena  enunciato  non  e'  posto   in   discussione   dall'indirizzo
giurisprudenziale per il quale, laddove il giudizio di primo grado si
sia concluso con una sentenza di assoluzione, il momento determinante
per l'instaurarsi della pendenza in  grado  di  appello  deve  essere
identificato nell'emissione del decreto di citazione a  giudizio  per
tale grado. L'orientamento in esame (Sez. 6, n. 7112 del 25  novembre
2008,  imp.  Perrone,  Rv.  242421)   e'   fondato   invero   proprio
sull'impossibilita'  di  estendere  le  connotazioni   conclusive   e
definitorie della fase di primo  grado,  proprie  della  sentenza  di
condanna,  alla  sentenza  di  assoluzione,  significativamente   non
indicata fra gli atti interruttivi della prescrizione; in  tal  senso
il criterio adottato dalla citata decisione delle  Sezioni  Unite  di
questa Corte viene ad essere a contrariis confermato. 
    3. Tanto premesso, la questione  di  legittimita'  costituzionale
proposta in via subordinata sul punto dal ricorrente e' meritevole di
attenta considerazione. 
    Come  gia'  osservato  in  una  precedente  declaratoria  di  non
manifesta infondatezza della questione  (Sez.  2,  n.  22357  del  27
maggio  2010,  imp.  De  Giovanni,  Rv.  247321),  il  principio   di
retroattivita' della legge piu' favorevole e' sancito sia  a  livello
internazionale sia a livello comunitario. 
    In primo luogo l'art.  15,  comma  1,  del  Patto  internazionale
relativo ai diritti civili e politici  adottato  a  New  York  il  16
dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge L.  n.  881  del
1977, stabilisce che  «se,  posteriormente  alla  commissione  di  un
reato, la legge prevede l'applicazione di una  pena  piu'  lieve,  il
colpevole deve beneficiarne», «disposizione alla quale si collega  la
riserva  dell'Italia  nel   senso   dell'applicazione   limitata   ai
procedimenti in corso, e non anche a quelli nei quali sia intervenuta
una decisione definitiva». 
    Gia' questa norma di carattere Internazionale, se paremetrata non
all'art.  3  Cost.,  ma  all'art.  117  comma  1,  Cost.,  rende  non
manifestamente infondata la questione di legittimita'  costituzionale
della disciplina transitoria in esame, perche' priva  l'imputato,  Il
cui  processo  sia  gia'  pendente  in  appello  o   in   Cassazione,
dell'ottemperanza alla regola cogente, imposta dalla  norma  pattizia
per la quale la  legge  piu'  favorevole  deve  essere  di  immediata
applicazione, senza che le deroghe  disposte  dalla  legge  ordinaria
possano  essere  giustificate  per  effetto  del  bilanciamento   con
interessi di analogo rilievo. 
    Piu' decisioni della Corte costituzionale, da ultima Corte cost.,
sent. n. 93 del 2010, hanno peraltro costantemente affermato che  «le
norme della CEDU, nel significato loro attribuito dalla Corte europea
dei diritti dell'uomo, specificamente  istituita  per  dare  ad  esse
interpretazione ed applicazione, integrano, quali norme interposte il
parametro costituzionale espresso dall'art. 117 Cost., comma 1, nella
parte in cui esso impone la conformazione della legislazione  interna
ai vincoli derivanti dagli "obblighi Internazionali" (sentenze n. 317
e n. 311 del 2009, n. 39 del 2008)». Ne consegue che «nel caso in cui
si profili un eventuale contrasto tra una norma interna e  una  norma
CEDU, il giudice  nazionale  comune,  deve,  quindi,  preventivamente
verificare la  praticabilita'  di  una  interpretazione  della  prima
conforme alla norma  convenzionale,  ricorrendo  a  tutti  i  normali
strumenti di ermeneutica giuridica (sentenza n. 239 del 2009), e, ove
tale soluzione risulti impercorribile, non potendo egli  disapplicare
la  norma  interna  contrastante,   deve   denunciare   la   rilevata
incompatibilita' proponendo questione di legittimita'  costituzionale
in riferimento al parametro dianzi indicato». La Grande Camera  della
Corte Europea dei diritti dell'uomo, in seguito al ricorso  n.  10249
del 2003 presentato da Scoppola Franco, con sentenza del 17 settembre
2009 ha imposto allo Stato italiano di  porre  fine  alla  violazione
degli artt. 6 e 7 della Convenzione  e  di  assicurare  che  la  pena
dell'ergastolo inflitta al ricorrente venisse sostituita con pena non
superiore a quella della  reclusione  di  anni  trenta.  La  CEDU  e'
pervenuta alla citata decisione avendo affermato che l'art.  7  della
Convenzione, che stabilisce il principio del divieto di  applicazione
retroattiva della legge penale, incorpora  anche  il  corollario  del
diritto dell'accusato al trattamento piu' lieve. In particolare,  per
quel che rileva nel presente procedimento, dopo  aver  rammentato  le
proprie precedenti pronunce sull'interpretazione  dell'art.  7  della
Convenzione, la Corte europea ha stabilito che la  sopravvenienza  di
norme  di  carattere  internazionale  e  di  pronunce  applicative  e
interpretative di esse Imponeva un «approccio dinamico  ed  evolutivo
nell'interpretazione dell'art. 7». Allo scopo richiamava  l'art.  491
della  Carta  dei  diritti  fondamentali  della  Unione  Europea,  la
sentenza 3 maggio 2005  della  Corte  di  giustizia  delle  Comunita'
europee  e  lo  stesso  art.  2  cod.  pen.  italiano.  Affermava  in
conseguenza  il  principio  secondo  il  quale   «l'art.   71   della
Convenzione non sancisce solo il principio della retroattivita' della
legge penale piu' severa,  ma  anche,  implicitamente,  il  principio
della retroattivita' della legge penale meno severa», per cui «se  la
legge penale in vigore al momento della perpetrazione del reato e  le
leggi  penali  posteriori  adottate  prima  della  pronuncia  di  una
sentenza definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le
cui disposizioni sono piu' favorevoli all'imputato». 
    Risulta  a  questo  punto  evidente  il  significato   innovativo
attribuito all'art. 7 della Convenzione, integrante norma  interposta
in relazione al parametro costituzionale di cui all'art.  117  Cost..
Il che impone lo scrutinio di legittimita'  costituzionale,  rispetto
alla  predetta  norma,  della  disciplina   che   pone   dei   limiti
all'efficacia nei procedimenti penali in corso della nuova previsione
della legge 251 del 2005 in tema di  determinazione  dei  termini  di
prescrizione, ove gli stessi siano piu' favorevoli all'imputato. 
    4.  La  proposta  questione  di  legittimita'  costituzionale  e'
altresi' rilevante nel presente giudizio. 
    Occorre premettere che con  la  sentenza  impugnata,  escluse  la
circostanza aggravante di cui all'art. 219, comma secondo, n. 1 legge
fall.  e  la  recidiva  reiterata  ed  infraquinquennale,  la   pena,
determinata nella misura base  di  anni  tre  di  reclusione,  veniva
ridotta per la riconosciuta attenuante di  cui  all'art.  219,  comma
terzo, legge fall.. 
    Secondo la previgente normativa in  tema  di  individuazione  del
termine di prescrizione, quest'ultimo dovrebbe essere  stabilito  nel
caso  di  specie,  avuto  riguardo  all'effetto   della   circostanza
attenuante su un reato punito  con  pena  edittale  massima  di  anni
dieci, e quindi con pena rilevante ai fini  prescrizionali  superiore
ai cinque anni, nella misura di anni dieci, aumentata fino al  limite
massimo  previsto  in  anni  quindici  per   l'effetto   degli   atti
interruttivi e ad anni quindici, mesi due e giorni quattordici per le
sospensioni derivanti da rinvii delle udienze dibattimentali in primo
grado dal 23 ottobre 2002 al 31 ottobre 2002 ed in secondo grado  dal
27 novembre 2009 al 3 febbraio 2010; termine  decorrente  dalla  data
della dichiarazione di fallimento al 17 giugno 1996, e  pertanto  non
ancora trascorso. 
    Con  l'applicazione  della  normativa  sopravvenuta,  irrilevante
essendo l'attenuante in quanto circostanza ad  effetto  speciale,  il
termine di prescrizione dovrebbe essere determinato in misura pari al
massimo edittale di anni dieci. Ai fini dell'aumento di detto termine
fino al limite massimo previsto per gli atti  interruttivi  non  puo'
tenersi conto della contestata recidiva; pur se la motivazione  della
sentenza chiarisce che detta esclusione veniva  pronunciata  ai  soli
fini sanzionatori, in considerazione della lontananza nel  tempo  dei
precedenti penali, tanto e' sufficiente perche' della circostanza non
si possa tener conto neppure ai fini prescrizionali (Sez. 2, n. 18595
dell'8 aprile 2009, Rv. 244158). In  questa  prospettiva  il  termine
massimo, tenuto conto  dei  menzionati  periodi  di  sospensione,  e'
dunque di anni dodici, mesi otto  e  giorni  quattordici,  e  risulta
decorso  al  3   marzo   2009.   Ove   ritenuta,   all'applicabilita'
dell'attuale  disciplina  seguirebbe  pertanto  la  declaratoria   di
estinzione del reato. 
    Gli ulteriori motivi di ricorso, se accolti, non determinerebbero
regressioni del procedimento implicanti in quanto tali l'applicazione
dei  nuovi  termini  prescrizionali.  L'eventuale  dichiarazione   di
illegittimita' costituzionale dell'art. 10, comma 3,  legge  251  del
2005 determinerebbe pertanto l'applicazione  di  una  disciplina  per
l'imputato  piu'  favorevole  di  quella  attualmente  operante.   La
questione deve pertanto essere rimessa alla Corte costituzionale, con
sospensione del presente giudizio.